Seguono le motivazioni espresse dalla giuria in relazione al Premio Nazionale di Poesia “Luciana Notari” 2019 – XI Edizione:
SEZIONE POESIA EDITA
Marco Vitale – Gli anni
È difficile rendere ragione in poche righe del lungo e prolifico percorso poetico di Marco Vitale, raccolto nel volume Gli anni. Tanto che si è tentati di affidarsi alle parole dell’autore stesso, il quale ha posto in chiusura del libro una Nota (invero una vera e propria prosa d’arte) in cui ripercorre le tappe di una lunga fedeltà al fare versi, lasciandoci addentrare nella sua affascinante e un po’ misteriosa officina, ricca di riferimenti letterari e artistici che testimoniano un gusto del tutto personale e fuori dai canoni. Il libro in questione, ci dice l’autore, si pone il fine di «restituire un percorso e con esso i segni del suo tempo». Il tempo è infatti il tema centrale di questo poeta «schivo e puro» (sono parole di Giancarlo Pontiggia), mite e ostinato, intenso e misuratissimo. Tempo che si dà essenzialmente come esperienza sincretica di assenza e presenza, di esilio e nostalgia; e che si misura nella distanza, continuamente oscillante, dagli affetti, dai luoghi, e nella capacità di focalizzarli cambiando lente e prospettiva, calibrando la lingua e la musica del verso. È infatti la costante ricerca linguistica e stilistica uno dei segni maggiori di questo poeta, pure assai radicato nella tradizione, anche se più europea che italiana. Ma la riflessione e il lavoro sul verso sono per Vitale, ben lungi dalle molte forme di dissidenza programmatica che poco hanno a che vedere con la poesia, un autentico bisogno di esprimere l’aderenza a un sentimento del mondo e della vita mutevole, complesso, un’inquietudine insanabile da cui tuttavia scaturisce – lo nota con acutezza Pontiggia nella prefazione al libro – «un sentimento di autentica gioia interiore, di vitalità degli affetti, di piacere estetico». Leggendo la poesia di Marco Vitale ci si sente accolti in un caldo recinto di occasioni affettive, di incontri fuggevoli ma numinosi, di accadimenti minimi da cui traluce il senso più autentico del nostro essere nel mondo. Custodire e condividere è il compito che questo poeta si è dato, fedele a un’idea di poesia come esperienza imprescindibilmente umana, dolente e gioiosa come è ogni cosa quando le parole della poesia la restituiscono al proprio centro.
Tiziano Broggiato – Novilunio
Nel Novilunio di Tiziano Broggiato siamo chiamati a sospendere il nostro istintivo bisogno di stabilità e ad accettare lo stato di sospensione, o di perenne transito, cui il nostro destino ci espone senza difese. Ad accettare che «davvero noi viviamo/ per dire sempre addio». Con questo poeta, entriamo in un mondo liminale, in cui la scrittura si dà come esercizio di attesa (splendida l’immagine della pagina come «sala d’aspetto periferica») e desiderio di uscire dall’impaludamento per rifondare, anelito ad un tempo autodeterminantesi («un novilunio che sappia rimuovere/ una stagione, questa, vicina allo zero»). Dal tempo transeunte della stagione, al tempo assoluto. Il senso più vero e profondo del novilunio è questo canto alla fatica dei viventi, in perenne viaggio, in perenne sosta; il libro è infatti pervaso da immagini di movimento, da nomi di luoghi, da luoghi di snodo in cui pure si è costretti a restare; come il tunnel ferroviario, metafora della condizione esistenziale, in cui un «lume sottile, a metà cammino tra procedere e ritornare» tiene sospesa la vita nella speranza di una «ennesima salvezza»; o l’alba, «le sei del mattino» che molto ci ricordano il Sereni de Gli strumenti umani, sospeso tra la notte e il giorno, tra la morte e la vita. Ma soprattutto Novilunio è un libro sulla luce, un canto d’amore e d’ossessione per le sue moltissime sfaccettature, le inclinazioni della luce di dickinsoniana memoria. La luce di Broggiato non è quella piena, frontale «eccessiva» della primavera; è una luce quasi sempre incerta, diafana: fatta di un «sole minuscolo», spesso abusiva e «irridente», «esitante», è la «luce densa di un’afa» che non indica direzioni ma dissemina indizi, possibili cominciamenti, segnali da interpretare con terrena approssimazione. Il poeta è dunque un «guardiano» che controlla la notte, o anche un «testimone stupefatto», e il suo compito possibile è tracciare il proprio passaggio nel mondo facendo dialogare il buio e la luce, resistendo in quello che Franco Cordelli chiama il «punto di sospensione» in cui «ricomincia il movimento della poesia, ossia della vita».
Davide Toffoli – L’infinito ronzio
Qual è l’Infinito ronzio con cui Davide Toffoli intitola il suo quarto libro di poesia? Nella poesia eponima, posta all’inizio e dunque forse programmatica, troviamo un indizio importante: «L’infinito/ ronzio delle braci,/ di tutto quello che sempre e da sempre vive sotto…». E poco oltre: «ma ci sfuggono le radici di questo/ miracoloso impasto di sole e di fango/ che ci portiamo dentro». Il libro si articola in sei sezioni che, come nota Gabriele Galloni nella nota introduttiva, «non potrebbero essere più distanti tra loro» nell’ispirazione e nei temi che le sottendono. Alle molte poesie di viaggio (alcune dedicate a un pellegrinaggio celebre come quello di Santiago, qui restituito con una bruciante e personalissima traccia, spia di una profonda sensibilità di quello che Toffoli stesso definisce «Tortuoso enigma dello spaziotempo»), segue la sezione centrale dal titolo Intimi ritratti inversi, dichiaratamente ispirata ai ritratti fotografici dei poeti fatti da Dino Ignani. Si tratta di un’affascinante e originale operazione di dialogo e di dissimulazione, in cui le poesie di Toffoli incontrano i versi dei poeti da lui amati, scelti in un ampio spettro generazionale e geografico a dilatare i confini di questo amoroso transito intertestuale. Ne scaturisce ben più di una galleria di ritratti parlanti: il virtuoso gioco di specchi, grazie all’interpolazione dei versi ospitati con i propri, genera un potente, prismatico effetto di amplificazione espressiva e semantica. A seguire, ci imbattiamo in una sezione costituita da Haiku, forma che a questo poeta pare particolarmente congeniale; di nuovo, un incontro con una tradizione altra, che però Toffoli addomestica magistralmente. Qual è dunque il muro portante di questo libro? Senza dubbio, esso consiste nella capacità di tenere insieme, anche mediante una ricerca linguistica e stilistica di assoluta precisione, le moltissime facce del fare poesia aprendosi all’arte dell’incontro con luoghi, versi, memorie amate, insomma con tutto il preziosissimo materiale che – adesso lo capiamo – rappresenta «l’infinito ronzio», intensamente ascoltato e amato, della poesia.
MENZIONE SPECIALE
Giorgio Ghiotti – La città che ti abita
Giorgio Ghiotti non ama solo la poesia; ama anche i poeti. Di un amore al contempo appassionato e rigoroso, spontaneo e maturo. E come in ogni amore che si rispetti, se ne appropria, piantandoli nel proprio hortus non conclusus, che è poi l’unico ramificatissimo terreno della poesia, dove esistono contiguità e non confini. Soprattutto di questo amore è pervasa La città che ti abita, città reale (Roma) interiorizzata e restituita, con forza e con grazia, alla sua viva luce metamorfica di «città d’angeli» e «sconosciutissimo regno». Sono sue le vite degli altri – amori, volti familiari, vivi e morti, poeti conosciuti o intensamente letti, e l’amatissima nonna cui è dedicata la commovente sezione dal titolo Silvana. Queste vite, fatalmente intrecciate alla propria, tessono le linee e i rilievi di una topografia amorosa priva di nostalgia e di rimpianto perché intrisa dell’immanenza di chi ha imparato a riconoscere e a decifrare se stesso negli altri. Come nota Biancamaria Frabotta nella prefazione al libro «Nella partizione luminosa dove stillano con la freschezza di una rugiada mattiniera le note del mondo visibile, gli infiniti dettagli della città che ci abita … egli il poeta si attesta, con piè fermo, sul presente». Non a caso Ghiotti scrive: «Non sono abbandoni questi addii/ lasciati a mezzo nel freddo delle stanze/ sono prove, doni, partenze». Se un senso di perdita trama queste intense, risonanti poesie, esso è inscritto nell’aderenza a un destino che affratella i presenti e gli assenti e che invita a sfidare la cronologia, quella «nostalgia in cui/ cadono i ricordi», a ribaltare le sorti imposte da un tempo che possiamo accettare solo convenzionalmente («Prova a dire tu che sei già morto/ prova a dire del tempo la sua controfigura»). Teso tra riconoscenza e riconoscimento, il libro è scritto da una mano sapiente e amorosa, da una voce assai talentuosa già perfettamente riconoscibile nell’affollato panorama contemporaneo.
Pasquale Di Palmo – La carità
Ancora una volta Pasquale Di Palmo ci consegna un libro doloroso e autentico, in continuità e in coerenza con la propria vocazione di poeta sabianamente convinto dell’onestà della poesia. Come scrive Paolo Lagazzi nella articolata prefazione al libro, «La carità … vibra di un sentimento creaturale, di una necessità intima della condivisione, di un’apertura all’umanità sofferente che sa imprimere a molti versi, a molte frasi, il tocco delle scoperte rivelatrici». A questo sentimento di profonda consonanza, alla constatazione della nudità radicale e immedicabile di ogni vita, e in particolare di quelle vite reiette da cui spesso siamo tentati di stornare lo sgurado, Di Palmo giunge con un crescente senso di stupefazione, disarmando la parola poetica da ogni sovrastruttura e lasciandola abitare da uno sguardo limpido, insistito e non insistente. Arreso all’evidenza della propria compassione, della carità appunto, questo poeta ci restituisce, in una lingua accessibile e mai scontata (talvolta ricorrendo al dialetto, specie quando entra in campo la figura paterna), immagini, quadri, sequenze di grandissima forza emotiva. Le persone, gli animali, gli oggetti che cadono nello spazio delle poesie (non di rado racconti in versi) e delle poche prose al centro del libro, sono colti nella loro essenzialità, in quella vulnerabilità che ce li rende conoscibili e indimenticabili, irriducibili a qualunque generalizzazione. Ed è questa, forse, la forza più trascinante dell’opera di Di Palmo: la capacità di parlarci del mondo dal più innocuo e segreto dei luoghi, il proprio cuore di uomo-poeta, consapevole della solitudine eppure certo dell’inevitabilità del suo parlare: «Si cammina come sonnambuli sotto cieli di cartavelina. Parlando ai sassi, alle rovine».
SEZIONE POESIA INEDITA
LAVINIA FRATI
vincitrice
Le poesie di Lavina Frati sono animate da un costante anelito alla vita – quella persa da chi non può tornare, quella che si cerca con fatica e disincanto di donare a se stessi, e quella, infine, che si invoca attraverso le parole di altri poeti per poter infine essere nominata, e così avvicinata. Se lo sviluppo delle poesie si muove nel solco di un lirismo tradizionale, i notevoli distici finali ci sorprendono, costringendoci a un’improvvisa torsione del pensiero, a una svolta lirica inattesa quanto struggente.
EMILIA FRAGOMENI
seconda classificata
Sopravvivere al tempo è l’urgenza che più occupa le poesie di Emilia Fragomeni, che infatti dispone nei tre testi qui presentati lo stesso sintagma “sopravvive al tempo” – in un solo caso spezzato da un enjambment, in tutti e tre i casi posto nella quartina conclusiva. L’orda dei ricordi, quanto mai vivi e nitidi, increspa e sommuove la versificazione, pure ancorata a una metrica tradizionale, e distende sul baluginìo delle immagini un affascinante senso di inquietudine e di accorata sospensione.