Premio Luciana Notari 2016 – le motivazioni della giuria

VINCITORI SEZIONE EDITI

 

PASQUALE DI PALMO – TRITTICO DEL DISTACCO

Nelle poesie di Pasquale Di Palmo appaiono spesso paia d’occhi appuntiti, come immaginiamo siano i suoi: lo sguardo che Di Palmo posa sul mondo è infatti insieme acuto e compassionevole, ma di una compassione contenuta, diremmo quasi trattenuta per non esondare, pur trattando qui ovunque la materia incandescente del distacco. Le sole concessioni sono quelle che il poeta fa al cielo, a volte dal “colore schiacciato, di decomposta aringa”, altre volte messo lassù a divincolarsi fra i rami. La sostanza del cielo è quella di un organismo vivente e respirante sopra le architetture veneziane, di una città contemporanea e vicina a quella, malinconica e bellissima, camminata da Josif Brodskij. Altrove, in una delle prose finali, il cielo sarà “carta moschicida”, dunque elemento che raccoglie una infinitesimale materia viva, per farla morire. Morire come mosche, si dice – ovvero alla spicciolata, a frotte, come esseri che non sanno morire come si deve, con i dovuti congedi, semplicemente perché hanno dimenticato di dover morire. Di Palmo ha il coraggio della realtà, soprattutto nelle descrizioni della decadenza fisica degli anziani del “Centro Alzheimer” dove il poeta va a trovare il padre e intanto indaga intorno, vede gli altri, con un’intelligenza concreta, che non si risparmia e non ci risparmia la verità di quello che aspetta noi esseri umani intanto presi dall’avventura stessa di dimenticare la vita e, con essa, la morte. Ecco la solitudine irresponsabile e immedicabile dei ricoverati, ecco la verità dei loro corpi fragilissimi, ecco la loro assenza preventiva dal mondo, che li difenderà dall’ultimo dei distacchi. Ed ecco infine le prose, nelle quali, con una lingua ancora esatta e materiale, viene sbozzata la statua della memoria, affogata di sole e di perdita, lasciata in piedi nella luce “allucinata” del tempo.

MARGHERITA RIMI – NOMI DI COSA-NOMI DI PERSONA

Margherita Rimi è neuropsichiatra infantile e di bambini, onestamente, si occupa la sua poesia. Come esergo e – diremmo quasi nota introduttiva – del libro è posto un frammento di Alice Miller, nel quale viene detto che il corpo è “incorruttibile, cessa di tormentarci solo quando non rifuggiamo più la verità”. Data questa premessa, ci prepariamo ad affrontare la verità che ci verrà detta. La poesia di Rimi sta a metà tra Rodari e Lamarque, simula – o trascrive – il linguaggio infantile dicendo cose serie e feroci (come la violenza che si subisce mentre i grandi si accecano per non vedere), malinconiche (come la ricerca difficile della propria identità dopo che siamo stati danneggiati), dolorosissime (come la breve sezione sull’autismo, dove impera il dolore della “madre frigorifero” coniata e demonizzata da Bettelheim) – o insopportabili (come il ricordo di Palmina Martinelli, bruciata viva perché rifiutò di prostituirsi). Tutto questo perché la poesia, per Rimi, che lo scrive chiaramente, citando Antonio Presti, è responsabilità del pensiero. Ci interessa che una dottoressa che lavora (anche, immaginiamo) con bambini che hanno difficoltà di apprendimento usi anche altre lingue nella sua poesia: la deduzione è che Rimi voglia anche seriamente giocare con parole e teorie, che spesso intreccia alla propria poesia. Questo proposito appare con chiarezza nella sezione Patologhia, nella quale Rimi rivendica la corporalità del corpo, il diritto del corpo a venire ascoltato attraverso la voce chiara e concreta dei suoi sintomi, chiudendo così il cerchio che aveva aperto con l’esergo di Miller. Possiamo dire che, con Nomi di cosa-Nomi di persona, Rimi metta in pratica quanto ella stessa scrive, ovvero attinga alla propria infanzia per comprendere – più che per osservare asetticamente – l’infanzia degli altri: solo chi ha ancora vivo dentro di sé l’indifeso bisogno di una carezza, può riconoscere lo stesso bisogno in un altro. Anche nel proprio figlio. Aggiungendo poi che, nella complessa costellazione che siamo, “anche una madre si tiene fra le braccia”.
MILO DE ANGELIS – INCONTRI E AGGUATI

Al principio si parla di una morte inserita tra cose quotidiane, si parla di una trattativa millimetrica, di una sottile guerra d’intelligenze, di apparizioni e scomparse di lei, che arriva sempre mirabilmente inattesa. La lotta del poeta è anche con se stesso poeta, forse, anche per mettersi finalmente a tacere, per stare dalla parte della morte. Eppure no. Eppure rinviene sempre, ancora e sempre rinviene, dentro di sé, quel silenzio incantato e involontario, che germina e fruttifica in una parola perfetta. “Precisa”, come scrive lo stesso De Angelis. E preciso è il grido di amore e dolore che rivolge al figlio: grido di padre che non può aiutare un’esistenza che si è staccata dalla sua, doloroso assenso di genitore che non può consolare quel buio oscillante nella fronte del figlio, quell’immeritato castigo. Ne segue la dedica a un Mario, probabilmente Mario Benedetti, anch’egli fatto irraggiungibile, chiuso in un tempo onirico dove vede “qualcosa di buono e lontano”.
Cosa rende poeti?, mi chiedo. Il coraggio, mi rispondo. Il coraggio di sentire – e poi di scrivere versi come “e io adesso ti rifiuto / e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato”. E il coraggio emotivo e umano (prima del poeta è indispensabile l’uomo!) di De Angelis, meglio si manifesta nella rischiosissima ultima sezione, Alta sorveglianza, scritta sul carcere di Opera, dove De Angelis insegna e dove è stretto a riflettere intorno all’uccisione della cosa amata, come scriveva amaramente Oscar Wilde dal carcere di Reading. Nel carcere le parole fanno diga al veleno del silenzio: il silenzio del carcere non è quello atemporale e onirico che abita i poeti, è il silenzio feroce di una morte in vita che, come la morte della prima sezione, sembra iniettare “nell’alba il suo buio primitivo” e lascia dilagare una disfatta, una disfatta solitudine, non la fusione cosmica all’esistente. Dunque, ai detenuti occorre parlare con parole che siano anche semplicemente suono, testimonianze sonore di esistenza in vita. Se l’omicidio è potuto avvenire, è stato perché tutto era solo “pensiero”. Come per Gustav Richter, il giardiniere di Spoon River. Ma qui si tratta di ben altro pensiero, si tratta di fissazione del pensiero e di una lontananza che non induce alla pace, ma all’amplesso finale di amore e morte, a quella donna uccisa da vicino come per amore, ma a colpi di coltello. Il carcere di De Angelis è sì nebuloso e interiore, ma è anche vivo, popolato e reale: il poeta non risparmia stoccate ai volontari e ai preti predatori, ma il bellissimo Incontri e agguati si chiude con lo struggente corale di chi ha assassinato e adesso è abitato dal fantasma del proprio omicidio, messo a disposizione di tutti – e chissà se stiamo infine cantando la nostra salvezza, tracciata a mani nude sull’asfalto o, piuttosto, una condanna a morte desiderata, la nostra: “esecuzione”.

 

VINCITORI SEZIONE INEDITI

 

Marco MITTICA

La dimensione affettiva dei versi di Marco Mittica ci accoglie come sull’uscio di una lingua accogliente e smaliziata per poi mostrarci, impietosamente, la “ruga sul volto di Dio”. I luoghi, così come gli affetti umani e quelli animali, sono oggetto di una sottile, amara decomposizione che il poeta non può e non vuole non vedere. E allora sceglie di cantarla, con versi brevissimi e addomesticati, da cui urgono, lucidi e beffardi, i segni di una realtà di morte, di contraffazione, di intossicazione. Chiamato a scrivere della natura, Mittica gioca con i topoi del domestico e dell’idilliaco disarticolandoli e consegnandoli a un’affascinante brevità.

Annalisa DE GREGORIO

La natura di Annalisa De Gregorio sta tutta in un reticolato di sguardi: prolungati, evitati, catturati dentro fotografie menzognere: “farsi invisibile”, “nessuno che guardi”, “l’occhio fisso d’una macchina fotografica”. La dimensione della vista sembra regolare il moto e le distanze di questa poesia ombrosa, che sommessamente ma con tenacia cerca la verità nei segni degli oggetti, dei fiori, delle piante o di luoghi silenziosi e desolati. In questi versi, si consuma infatti il dramma della visione, attesa, rimandata, arrivata d’improvviso a rivelarci “il dolore per la perfezione”. Poesia attenta e intensa, che ci porta all’appuntamento con l’inevitabile consegnandoci infine un viatico speranzoso e incoraggiante: “ce la faremo tutti”.

Alessandra SCARANO

E’ essenzialmente e autenticamente panica l’esperienza che si consuma nei versi di Alessandra Scarano; trae voce da un corpo che si fa strumento e che risuona nei ritmi e nei riti di passaggio delle stagioni così come in cataclismi evocati con la forza della profezia. Questo incarnarsi nelle cose terrene fa della poesia un monologo febbrile e appassionato, un tu per tu cosmico e immaginifico che travalica l’identificazione e che non può lasciarci indifferenti. Con una pronuncia netta, Scarano ci dichiara: “Senza sapere dove / sono nata, so dove ho preso casa”. E la casa è quella della parola aurorale, della prima proferizione, “quando l’eco tra le rocce e il mare aperto / si riflesse sulle onde in forma d’alfa”, generando il canto da cui la poesia, nel suo modo oscuro e necessario, prende forma e vita.

 

 

Lascia un commento

Archiviato in Senza categoria

I commenti sono chiusi.