Vincitori del Premio Poesia “Luciana Notari” 2017 IX edizione – Motivazioni dei premiati

OPERA EDITA

1° classificato

Francesco Scaramozzino – L’onere dei nidi

Scaramozzino ha la capacità di associare l’inassociabile, il così detto “alto” al così detto “basso”, il così detto “lirico” al così detto “impoetico”: di attingere, cioè, alla mischia parlante della poesia di temperamento novecentesco, per tirarne le conseguenze dovute. La consapevolezza linguistica è talmente evidente che è superfluo notarla più a lungo. Ma possiamo aggettivarla: è una consapevolezza evocativa, non dimostrativa. Allude senza dire e senza però usare metafore, perché la lingua è tutta già spostata in una zona metaforica diremmo quasi dell’essere, più che della stessa lingua. Ma questa zona al di là dell’essere non pare essere metafisica, tutt’altro: le parole costruiscono un universo fermo e concreto, solo baluginante di una luce interna, propria.

È attraversando il mondo, infatti, che arriviamo al volo dell’ultima sezione – come ben nota anche Marco Tabellione nella nota finale – e il volo è a sua volta un nome che sta per “poesia”, se Scaramozzino scrive: “Vedi? trema sulla pagina / con le sua ali / anche quest’ultima poesia, / che ha l’attitudine al volo”.

Il poeta getta dunque sul mondo una rete a strascico e tira alla secca della sua scrivania alcuni reperti (appunto) baluginanti, evocativi di un mondo che non è dato fissare sulla pagina, che non è dato trattenere nella vita, ma che è dato e ridato: ricordare – al quale è dato e ridato: aspirare – e che riassumiamo, con Scaramozzino, nella parola: “avvicinati”. Detto a una donna. Detto al mondo stesso.

Scaramozzino

2° classificata

Daniela Raimondi – Maria di Nazareth

Ci vuole coraggio, a far parlare Maria per bocca nostra, a parlare al suo posto noi umani, umanissimi, tanto più perché poeti. Lo ha già fatto Merini nel Magnificat, con le sue impennate enfatiche, arrivando a fare di Maria se stessa, la poetessa che mette al mondo il Verbo, secondo una catena associativa istintiva. E, ben prima di lei, lo aveva fatto Jacopone da Todi con la lauda drammatica Donna de Paradiso, che contiene la supplica di Maria a Pilato: “O Pilato, non fare / el figlio meo tormentare, / ch’eo te pòzzo mustrare / como a ttorto è accusato”.

Ci vuole coraggio, a far scendere ancora Maria dal cielo, a costruire con le parole una Maria tutta materia umana e contemporanea, che si oppone al volere di Dio – come questa di Raimondi: qui Maria non supplica nemmeno, bensì si oppone fieramente, sebbene inutilmente, al proprio destino e al destino del figlio – rivendica con forza e disperata ironia la propria umanità: “Mi hanno fatta di legno intarsiato, / d’ebano e d’oro. E menzogne. / Perché io non fui mai così bella / ma ero fatta di carne, e dolore, e pietà.”

Infine, orfana del figlio come Storia comanda, maledice la vita che le resta – proprio come farebbe e fa ogni madre. Questa possibilità di identificazione e scavalcamento spazio-temporale è la chiave del libro di Daniela Raimondi, che impone al nostro sguardo una figura non distaccata e ieratica, la materna e serena custode delle nostre preghiere, ma porta quella Vergine antica nel tempo nostro, ne fa una qualunque madre che grida di nero dolore: non la madre soavissima di dio, ma una qualunque madre della nostra contemporaneità: afghana, siriana, belga, sudanese, eritrea (purtroppo abbiamo l’imbarazzo della scelta), una donna che insieme al figlio ha perduto la gioia della vita, una madre di dio che non ci guarda dall’alto, piuttosto ci riguarda – e condivide una larga, dolente parte della storia contemporanea. L’evocazione è purtroppo automatica.

La poesia di Raimondi chiede dunque alla nostra coscienza un altro passo, per tornare sensibile al dolore privato di ciascuna madre, nel dolore più grande: caotico, vasto e sovranumerico al quale siamo assuefatti.

Daniela Raimondi

3° classificata

Elena Petrassi – Scrivere il vento

Si può scrivere il vento? Il libro di Elena Petrassi sembra dirci di sì, che si può incidere la fuggevolezza delle stagioni, scalfire l’ineluttabilità dei mesi e ancora aprire un varco nel buio, nel quale – come ci ricorda un titolo che è una sinestesia – “le mani cantano”. Ma per farlo, occorre usare una lingua che non tema la libertà associativa, un flusso che impasta e dissolve, che coraggiosamente chiama in causa l’assoluto e lo recinta dentro l’esperienza: in breve, una lingua che non tema la vertigine ma la addomestichi.

Viene alla mente un’autrice come Virginia Woolf, la cui scrittura sfida costantemente i limiti del dicibile, prima che la parola colpisca troppo in basso, come ci ricorda Lily Briscoe, indimenticabile protagonista del libro Al faro. La tentazione del silenzio è costante e scrivere è insieme una sfida e una necessità inalienabile. Pensiamo, ad esempio, a una poesia come Quel silenzio bianco della parole non scritte. Ma anche ai versi intensi e definitivi dedicati al padre morto, Io non canterò la tua fine, dove è solo la lingua a dettare l’urgenza di tracciare il tempo, che altrimenti si dispiega in un eterno presente.

La sorpresa di Scrivere il vento sta nella sua capacità rara di aprirci alle variazioni della luce, di portarci nel cosmo tra le stelle e da lì illuminare, con la sola forza inesauribile della parola, gli affetti, le ferite, i rimpianti, le malinconie. E’ un libro da cui non ci si vorrebbe separare; un laico e ispirato libro d’ore in cui si riesce nella difficile impresa di abbassare il volume dell’io, per farsi voce, resistente e pura, del tempo andato e di quello che resta.


OPERA PRIMA

VINCITORE

Claudia Di Palma, Altissima miseria

E’ decisamente l’ossimoro, dichiarato già nel titolo, la cifra costitutiva della raccolta d’esordio di Claudia Di Palma. Ma l’ossimoro non solo e non tanto come figura retorica quanto come attitudine poetica, e dunque chiave d’ingresso alla visione del mondo che quella poesia fa esistere. I versi che Di Palma scrive scavano nel solco della contraddizione, cercando la verità nel paradosso, nel rovesciamento: la miseria in cui siamo confinati è altissima, se spostiamo lo sguardo o se lo incuneiamo nelle fessure di ciò che, convenzionalmente, ci dimentichiamo – o ci rifiutiamo – di vedere. Ecco dunque che lo scarto, il vuoto, lo spigolo, l’esilio, l’indecisione, diventano i luoghi e gli oggetti prediletti per lanciare il sasso della parola poetica e stimolare un dialogo con un “tu” che è interlocutore indefinito, mobilissimo ma costante. Di Palma non ha paura di chiamare in causa direttamente Dio «misero e perso», cui restituire la propria finitudine come dono, atto di infinita compassione.

Se, come ci ricorda Alessandro Canzian nella prefazione, la poesia è testimonianza e invenzione, il mondo poetico che Di Palma inventa per noi ci restituisce, in versi di grande impatto, la bellezza e la potenza della nostra condizione di creature, ricordandoci che «E’ l’esilio la nostra grande risorsa, il non avere appigli».

Claudia Di Palma

 

MENZIONE SPECIALE

Farhad Ali Zolghadr, Sulla tenera pelle

Con Sulla tenera pelle di Farhad Ali Zolghadr ci muoviamo in un mondo che non ci appartiene e che ci permette di imparare – o meglio, ricordare – una lingua nuova e un nuovo codice di relazione umana, che non teme il ridicolo del sentimento come ormai avviene nel nostro Occidente. Eppure, la convinzione che siamo in attesa di nascere, che troviamo ad apertura di libro, coincide esattamente con quanto espresso da Jung, quando scrive che al mondo vivono molti esseri non ancora nati – e che è indispensabile credere in questo mondo, e lasciarvi una traccia di sé. Ed è precisamente questo, che fa Zolghadr: lascia traccia di sé come poeta e crede al mondo, perché la sua poesia si lascia attraversare dalla bellezza e dal dolore del mondo, non ci racconta solo dell’eterno tempo sospeso dell’amore, ma anche dell’ingiustizia della realtà e della guerra contemporanee. Per quanto nella sua scrittura si riscontri l’eco notevole della tradizione, la lingua di Zolghadr è trascinata verso una stringente attualità, dunque si muove su un interessante bilico spaziotemporale di Oriente e Occidente. Della sua tradizione, mantiene soprattutto la semplicità, che abbiamo imparato ad amare quando ne abbiamo compreso la profondità, quando abbiamo imparato a riconsiderare il peso specifico della parola, ricordando – appunto – come ogni parola abbia di per sé preziosità. Zolghadr mostra ovunque la propria fede nella parola, come dovette dichiarare Celan dalla Shoah, lanciando la propria preghiera a Nessuno, fondando una incrollabile fiducia nel canto che canta sopra ogni spina – ma Zolghadr lo fa anche a nome del proprio popolo, perché, scrive: “La voce dei poeti mitigò la furia del vento in brezza poetica / che ispira all’islam parole di pace e d’amore per l’umanità intera” – e lo fa in un testo dove mescola la muta dei tassisti all’alata dea persiana Simorgh – fino a quando, forse, come scrive il poeta, la porta si aprirà perché avremo smesso di sperare, perché la nostra attesa sarà finalmente “libera dalla speranza”. E chissà che non abbia ragione…

Farhad Ali Zolghadr


 

 

OPERA INEDITA

vincitrice

MONICA GUERRA

Colpisce, nelle poesie di Monica Guerra, la tensione elusiva e al contempo folgorante delle immagini. Siamo chiamati, dai versi brevi e franti, a ricomporre eventi, rimettere insieme le tracce di un dolore, di una presenza/assenza implacabile. Le microstorie di abbandono e di resistenza che si snodano lungo i versi ci vengono restituite con forza da una lingua precisa e tagliente e da una sintesi icastica di notevole raffinatezza.

Monica Guerra

 

2° classificato

 

ROBERTO ROMANATO

La poesia di Roberto Romanato si colloca con decisione nel solco della tradizione novecentesca, di cui assume sia la la fisionomia che il peso specifico. Soffia tra questi versi un vento montaliano, nella natura che si fa metafora di un mondo impervio eppure irresistibile, dove il poeta non è «mai saziato di andare». Questa poesia ci mette a parte di un’inquietudine febbrile, con versi molto ben costruiti e con un affascinante ed originale repertorio di immagini.


 

A seguire, alcune foto della premiazione:

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